Negli ultimi anni, si è assistito a un inasprimento delle contestazioni da parte dei movimenti di opposizione a qualsiasi tipo di impianto per la conversione dell’energia, anche a partire da fonti rinnovabili. Il fenomeno delle contestazioni, originato probabilmente dalla crisi della credibilità delle istituzioni, dall’informazione tecnico-scientifica che spesso veicola notizie strampalate, sensazionalistiche e allarmistiche e dalla predisposizione del cittadino al fraintendimento e al pregiudizio, si è certamente radicalizzato. A questa opposizione hanno contribuito anche alcuni falsi miti. Uno tra i più utilizzati dai movimenti di opposizione, circola dal 2003 e riguarda le centrali a gas naturale a ciclo combinato che, secondo il mito, emetterebbero in un anno tante polveri solide come tutto il traffico di una grande città.
Questo mito nasce da un articolo di due autori italiani, un medico ed un ricercatore dell’Istituto per la Sintesi Organica e la Fotoreattività del CNR, pubblicato nel maggio 2003 sulla rivista “La chimica e l’industria”, nel quale viene testualmente affermato che cicli combinati alimentati a gas naturale della taglia di 800 MW emettono una quantità di polveri solide, 290 t/anno, «dell’ordine di quella prodotta dal traffico della città di Bologna». La cifra è stata estrapolata dagli autori mediante uno scale-up di un impianto più piccolo studiato su un precedente lavoro americano del 2000.
Nel lavoro italiano venivano poi calcolate le quantità emesse attraverso i fattori di emissioni delle tabelle EPA (Environmental Protection Agency), cioè il metodo usualmente utilizzato per le stime delle emissioni degli impianti in generale ed in particolare di quelli per la conversione dell’energia: da questo calcolo però le polveri totali (solide più condensabili) emesse risultavano essere pari a 48 t/anno. Il lavoro italiano concludeva, comunque, che «per una serie di motivi, tali valori debbono essere considerati stime molto approssimate delle emissioni di una centrale», mentre i risultati estrapolati dal lavoro americano (le 290 t/anno di sole polveri solide) garantiscono «una stima dei dati di emissione largamente affidabile e confrontabile con dati di centrali “reali”». Si conclude sostanzialmente che esiste un metodo “buono” (il non ben precisato metodo americano) e un metodo “cattivo” (quello normalmente usato, cioè l’impiego dei fattori di emissione).
Queste affermazioni sono state in continuazione e fino ad oggi utilizzate dai comitati di opposizione in modo acritico come elementi a sfavore della tecnologia delle centrali a ciclo combinato: l’ultima citazione di nostra conoscenza è del 19 marzo 2010 su “La tribuna di Treviso” in un articolo riguardante una centrale a ciclo combinato a Cessalto, intitolato “Stop alla centrale turbogas: inquina”.
In realtà i numeri riportati sul lavoro italiano che ha generato il “mito” sono frutto di un approccio approssimato al problema: si è considerato che l’impianto dello studio americano e quello dello studio italiano emettessero la stessa quantità di polveri per ogni chilowattora di energia elettrica prodotto, senza tener conto della differenza di rendimento tra i due impianti e della diversa proporzione tra potenza della turbina a gas e dell’impianto a vapore. Va poi sottolineato il fatto che il calcolo mediante i fattori di emissione EPA è errato poiché effettuato moltiplicando il fattore di emissione per l’energia prodotta e non per quella immessa con il combustibile come previsto: ipotizzando un rendimento per il ciclo combinato del 55 % (plausibile per l’epoca e la taglia) le polveri totali avrebbero dovuto essere valutate correttamente in 87 t/anno, e non 48 t/anno come scritto invece.
Inoltre, un’analisi approfondita del testo originario del lavoro americano avrebbe mostrato che, per il calcolo delle emissioni di polveri sottili (e di tutti gli altri prodotti indiretti della combustione), anch’esso utilizza i fattori di emissione, quindi le conclusioni sul metodo “buono” e quello “cattivo” perdono di significato. Le autrici statunitensi avevano utilizzato le tabelle di emissione EPA del 1995 (è sufficiente uno sguardo alla Tabella 5 dello studio americano), mentre i due autori italiani le tabelle del 2000 e da qui la differenza tra i valori calcolati (290 t/anno di sole polveri solide contro 48 t/anno, o meglio 87 t/anno, di polveri totali). Il lavoro americano è datato settembre 2000, l’EPA nell’aprile del 2000 ha rinnovato le tabelle di emissione per quanto riguarda i turbogas (che sono i motori primi delle centrali a ciclo combinato, cioè le uniche fonti di emissioni visto che il vapore viene generato recuperando il calore di scarico dei turbogas): sono stati aggiornati i valori e soprattutto è stata eliminata la possibilità di riferirsi all’energia prodotta. Questo adeguamento è stato necessario poiché il riferirsi all’energia prodotta e non a quella introdotta attraverso il combustibile penalizza le tecnologie più efficienti, invece di premiarle: l’impianto a vapore di un ciclo combinato produce energia elettrica recuperando il calore dei fumi di scarico del turbogas, quindi senza bruciare ulteriore combustibile e senza emettere nulla in più in atmosfera. Non ha senso quindi, come era consentito dalle tabelle EPA del 1995 “caricare di emissioni” (non realmente emesse) anche i chilowattora prodotti dall’impianto a vapore. Le nuove tabelle, infine, fotografando il miglioramento della tecnologia di combustione riportavano per il particolato solido un fattore di emissione di circa dieci volte inferiore rispetto alle tabelle del 1995 (0.0019 lb/MMBtu rispetto a 0.0193 lb/MMBtu).
Concludendo, il lavoro pubblicato nel maggio del 2003 avrebbe dovuto affermare correttamente che la centrale a ciclo combinato della potenza di circa 800 MW oggetto dello studio avrebbe emesso circa 25 t/anno di polveri solide e circa 87 t/anno di polveri totali. Così facendo, forse, ci saremmo risparmiati un decennio di “psicosi collettive” riguardanti le centrali a ciclo combinato a gas naturale.
Con questo, nessuno vuole negare che una centrale a ciclo combinato sia fonte di emissioni inquinanti, ma bisogna sempre evidenziare che non esiste una soluzione ad impatto zero, e che nessuna tecnologia può fornire esclusivamente benefici. La domanda da porsi non è quindi quanto una tecnologia inquini in senso assoluto, ma quanto siamo disposti ad accettare i rischi connessi alla sua presenza in funzione dei benefici che direttamente o indirettamente possiamo trarne.
Infine, ci permettiamo una considerazione più generale, su di una cattiva pratica che sta diventando sempre più comune tra gli “esperti”. Questa vicenda (esperti in medicina e chimica che pubblicano considerazioni riguardo a sistemi energetici su di una rivista di chimica, non permettendo quindi un corretto processo di peer-review) dovrebbe far riflettere sulla responsabilità di coloro i quali, facenti parte della comunità scientifica, anche con un curriculum di tutto rispetto in un determinato settore specifico, si ritengono idonei a poter dire la propria su qualsiasi argomento. Responsabilità accresciuta nel momento in cui si cerca, giustamente, di costruire uno spazio comune di coinvolgimento di esperti, cittadini e tutti i portatori di interesse per la definizione di una soluzione condivisa nei temi eticamente, ecologicamente, politicamente e strategicamente sensibili.