Il recente Piano per l’efficienza energetica 2011 della Commissione europea, pubblicato nel marzo di quest’anno, esordisce decantando le virtù di quella che “sotto molti aspetti può essere considerata la maggiore risorsa energetica dell’Europa”, che come noto è ormai dipendente dall’estero per oltre il 50% del proprio approvvigionamento.
Le lodi sperticate proseguono con la previsione che, qualora venga raggiunto l’obiettivo di riduzione dei consumi rispetto al trend del 20% al 2020, ogni famiglia potrà risparmiare 1000 euro l’anno, l’industria europea potrà rafforzarsi, si creeranno fino a 2 milioni di nuovi posti di lavoro e verranno rilasciate in atmosfera 740 milioni di tonnellate di gas ad effetto serra in meno.
In apparenza, altro che un pasto gratis: qui siamo di fronte a un intero ciclo di potenziali abbuffate senza evidenti trade-off all’orizzonte. A fronte di queste radiose prospettive, che farebbero l’invidia di qualunque economista, che invece si trova più comunemente a dover ragionare di risorse scarse e quindi di loro usi alternativi e tutt’altro che privi di costi, si potrebbe immaginare che l’obiettivo del 20% di maggiore efficienza energetica al 2020 sia quello più facile da raggiungere tra i tre individuati dal Pacchetto Clima ed Energia dell’Unione Europea. Tanto da non aver neppure bisogno di essere vincolante per gli Stati membri.
Date queste premesse, appare stupefacente apprendere, sempre nello stesso documento della Commissione europea, che, al ritmo attuale, solo metà di quell’obiettivo potrà essere raggiunto. Molto peggio di quanto ci si attende per il target percentualmente identico, questo sì molto costoso, delle rinnovabili. Eppure, tutti gli studi quantitativi, indipendentemente dal grado di sofisticazione, ci dicono che in termini di costo-efficacia tra efficienza energetica e rinnovabili non c’è partita. A parità di riduzione delle emissioni, la prima costa molto meno delle seconde. Questo naturalmente non ci deve spingere a fermare gli investimenti nelle rinnovabili (anche se un qualche rallentamento, specie nel fotovoltaico, appare auspicabile rispetto al trend di sviluppo del 2010). Deve però costringerci seriamente a interrogarci sui motivi che hanno fin qui rallentato la crescita dei mercati dell’efficienza energetica (non a caso uso il plurale, perché uno dei problemi chiave almeno fino ad ora è stato proprio quello di una realtà frastagliata difficilmente riconducibile ad una sua organicità o quantomeno a un forte denominatore comune).
Come al solito in questi casi, la risposta sulle cause non è univoca. E’ perciò interessante sapere cosa pensano a questo riguardo i funzionari pubblici dei Paesi dell’Unione Europea (più la Croazia) ai quali la Commissione europea ha chiesto di dare un giudizio sulla rilevanza di un set di possibili misure a favore dell’efficienza energetica. Tra le 12 opzioni, subito dopo modifiche legislative e regolamentari (sono pur sempre rappresentanti dei Governi, verrebbe da commentare), quella che riceve un punteggio più alto in una scala di priorità da 0 a 10 è il tema del finanziamento degli interventi (con un elevatissimo 8,4). Più delle campagne di informazione, di un sistema di certificati bianchi esteso a tutti i Paesi, del cosiddetto “green procurement”, dello smart metering, di una revisione del sistema delle ESCo, eccetera eccetera.
In teoria, quello del finanziamento dei progetti di efficienza energetica è un non problema. Al contrario delle fonti rinnovabili, i progetti di efficienza energetica non avrebbero neppure bisogno di particolari sostegni pubblici. Converrebbe farli a prescindere, come direbbe qualcuno. Eppure, se non si fanno, a parte la disinformazione, che certamente gioca un ruolo, la ragione principale sta nel profilo finanziario degli investimenti: a fronte di un esborso iniziale, tanto più rilevante quanto maggiore è il guadagno di efficienza che si vuole acquisire, un payback spesso e volentieri decisamente differito nel tempo. Quando magari le condizioni economiche sottostanti che giustificavano quell’investimento (la proprietà di un immobile piuttosto che la produzione di un certo bene) sono nel frattempo mutate.
Ecco dunque perché le stesse istituzioni comunitarie (si pensi alla Banca europea degli investimenti) hanno stanziato notevoli risorse per finanziare interventi di efficienza energetica e hanno in programma di renderne disponibili molte altre nei prossimi anni. Ma certamente in un mercato che dovrà raggiungere cifre del tutto considerevoli e coinvolgere una parte rilevante dei cittadini e delle aziende europee non è ipotizzabile che il ruolo principale di finanziatore sia svolto dal settore pubblico (che forse più utilmente dovrebbe incominciare a dare il buon esempio sia con la ristrutturazione del proprio patrimonio immobiliare che con il green procurement, come auspica il Piano della Commissione). Né si può confidare unicamente sulle ESCo, le società di servizi energetici, che certamente dovranno avere un ruolo fondamentale nella progettazione, nell’esecuzione e nella certificazione degli interventi ma non hanno né i capitali né la competenza finanziaria per erogare prestiti o vendere prodotti creditizi.
E’ dunque chiaro che ad oggi il principale limite allo sviluppo dell’efficienza energetica è dato dalla virtuale assenza delle banche. Alle quali, oltre le tante colpe di cui vengono additate, specie negli ultimi anni, non può essere rimproverato più di tanto nello specifico, se non forse lo scarso contributo lobbistico a rimuovere con un’azione necessariamente di sistema gli ostacoli che si frappongono alla bancabilità dell’efficienza energetica. Che sono in primo luogo due: l’estrema varietà dei progetti (una differenza lampante rispetto all’agevole riduzione a un numero limitato di standard tecnologici delle rinnovabili) e la difficile nonché incerta certificazione dei risparmi effettivamente conseguiti.
Due tipologie di problemi di non facile soluzione, attraverso la quale passano però gran parte delle speranze di sviluppo dell’efficienza nel nostro Paese e più in generale in Europa. Per questo è auspicabile che le istituzioni pubbliche che si occupano di efficienza, le utility, le ESCo e le banche affrontino insieme il tema quanto prima. Senza dover aspettare l’Europa, come l’Italia ha già saputo fare nel 2004 quando ha deciso di istituire un mercato dei certificati bianchi, seguita negli anni successivi da altri Paesi e ora forse da tutti gli altri su spinta della stessa Commissione europea.